AFFARI
Il capitano John Sommers ancorò il Fortuna nella baia di San Francisco a distanza sufficiente dalla riva per impedire a qualche tipo coraggioso di avere l'audacia di buttarsi in acqua e di nuotare fino alla costa. Aveva avvertito l'equipaggio che l'acqua fredda e le correnti li avrebbero fatti fuori in meno di venti minuti, nel caso in cui non avessero provveduto gli squali. Era il suo secondo viaggio con il ghiaccio e si sentiva più sicuro. Prima di imboccare lo stretto canale della Golden Gate fece aprire varie botti di rum, lo distribuì generosamente tra i marinai e quando questi furono ubriachi sfoderò un paio di rivoltelle e li obbligò a sdraiarsi a terra a faccia in giù. Il secondo di bordo li incatenò con ceppi ai piedi, tra lo sbigottimento dei passeggeri imbarcati a Valparaiso che osservavano la scena dalla prima coperta senza capire cosa diavolo stesse succedendo. Nel frattempo, dal molo, i fratelli Rodriguez de Santa Cruz avevano inviato una flottiglia di scialuppe per condurre a terra i passeggeri e il prezioso carico dello steamer. L'equipaggio sarebbe stato liberato per le manovre di disancoraggio nel momento in cui l'imbarcazione fosse salpata per il ritorno, dopo aver ricevuto altro alcol e un bonus in monete autentiche d'oro e d'argento equivalente al doppio del salario. Ciò non li ricompensava dell'impossibilità di scendere a terra e addentrarsi alla ricerca delle miniere, come quasi tutti avevano progettato, ma almeno li consolava. Aveva fatto ricorso allo stesso metodo durante il primo viaggio, con eccellenti risultati, e si vantava di capitanare una delle poche imbarcazioni che non erano state abbandonate a causa della follia dell'oro. Nessuno osava sfidare quel pirata inglese, figlio di una puttana e di Francis Drake, come lo chiamavano, perché non v'era il minimo dubbio che non avrebbe esitato a scaricare i suoi tromboni sul petto di chiunque avesse provato a ribellarsi.
Sul molo di San Francisco vennero impilate le merci imbarcate da Paulina a Valparaìso: uova e formaggi freschi, frutta e verdura dell'estate cilena, burro, sidro, pesci e frutti di mare, insaccati della miglior qualità, carne vaccina e ogni sorta di volatile ripieno e condito pronto per essere cucinato. Paulina aveva commissionato alle monache pasticcini al latte e torte millefoglie, come anche intingoli tipici della cucina creola, che viaggiarono congelati nelle celle di neve azzurra. La prima spedizione era stata presa d'assalto in meno di tre giorni con un utile talmente vertiginoso che i fratelli trascurarono gli altri affari per concentrarsi sui prodigi del ghiaccio. Le lastre si scioglievano lentamente durante la navigazione, ma ne rimanevano molte che il capitano pensava di vendere a prezzi da usuraio a Panama nel viaggio di ritorno. Fu impossibile mantenere il silenzio sul formidabile successo del primo viaggio e si diffuse alla velocità della luce la notizia che alcuni cileni navigavano con pezzi di un ghiacciaio a bordo. Immediatamente si costituirono delle società pronte a fare la stessa cosa con gli iceberg dell'Alaska, ma risultò impossibile trovare equipaggi e prodotti freschi in grado di competere con quelli cileni e Paulina poté proseguire senza rivali nell'intensa attività e dotarsi di un secondo vapore per ampliare il giro d'affari.
Anche le casse di libri erotici del capitano Sommers vennero vendute in un batter d'occhio, ma più discretamente e senza passare per le mani dei fratelli Rodriguez de Santa Cruz. Il capitano doveva evitare a qualsiasi costo che si levasse il coro di voci virtuose, come era successo in altre città, che la censura li confiscasse in quanto immorali e che finissero bruciati in pubblici roghi. In Europa circolavano segretamente in edizioni di lusso tra gran signori e collezionisti, ma la maggior parte degli introiti proveniva dalle edizioni a diffusione popolare. Erano stampati in Inghilterra, dove si vendevano clandestinamente per pochi spiccioli, ma in California il capitano guadagnava cinquanta volte il loro valore. Visto l'entusiasmo scatenato da questo tipo di letteratura, gli venne l'idea di inserirvi delle illustrazioni, dato che la maggior parte dei minatori era in grado di leggere solamente i titoli dei giornali. Le nuove edizioni erano già in corso di stampa a Londra con disegni volgari, ma espliciti, che in fin dei conti erano l'unica cosa che interessasse.
Quella sera John Sommers, sistemato nel salone del miglior hotel di San Francisco, cenava con i fratelli Rodriguez de Santa Cruz che in pochi mesi avevano recuperato il loro aspetto aristocratico. Non rimaneva nessuna traccia degli irsuti cavernicoli che qualche mese prima avevano cercato l'oro. La fortuna l'avevano trovata li, in pulite transazioni che potevano portare a termine dalle morbide poltrone dell'hotel, con un whisky in mano, come gente civilizzata e non come zoticoni, dicevano. Ai cinque minatori cileni che si erano portati dietro alla fine del 1848 si erano aggiunti ottanta contadini a giornata, gente umile e sottomessa che non sapeva nulla di miniere ma che imparava alla svelta, rispettava gli ordini e non si ribellava. I due fratelli li avevano messi a lavorare sulle rive dell'American River, agli ordini di leali capisquadra, mentre loro si dedicavano ai trasporti e al commercio. Comprarono due imbarcazioni per fare la traversata da San Francisco a Sacramento e duecento muli per trasportare ai giacimenti le merci che vendevano direttamente senza passare dagli empori. Lo schiavo fuggiasco che prima faceva da guardaspalle si rivelò un asso con i numeri e adesso curava la contabilità, anche lui vestito da gran signore e con in mano un calice e un sigaro, a dispetto dei mugugni dei gringo che a fatica ne tolleravano il colore, ma non avevano altra alternativa che trattare con lui.
"La sua signora le manda a dire che con il prossimo viaggio del Fortuna verrà con i bambini, le cameriere e il cane. Dice di iniziare a pensare alla sua sistemazione perché non ha intenzione di vivere in albergo," comunicò il capitano a Feliciano Rodriguez de Santa Cruz.
"Che idea folle! La febbre dell'oro si esaurirà in fretta e questa città tornerà a essere il villaggio che era due anni fa. Già ci sono segnali che il metallo è diminuito, non ci sono più ritrovamenti di pepite grandi come sassi. E quando tutto ciò sarà finito, a chi importerà della California?"
"Quando arrivai qui per la prima volta sembrava un accampamento di profughi e ora si è trasformata in una città come Dio comanda. Sinceramente, non credo che sparirà in un soffio, è la porta dell'Ovest dal Pacifico."
"È quel che dice Paulina nella sua lettera."
"Feliciano, segui il conio di tua moglie che ha un occhio di lince," lo interruppe il fratello.
"E comunque non c'è modo di impedirglielo. Nel prossimo viaggio verrà con me. Non dimentichiamo che è l'armatrice del Fortuna," sorrise il capitano.
Servirono loro ostriche fresche del Pacifico, uno dei pochi lussi gastronomici di San Francisco, tortore ripiene di mandorle e pere sciroppate del carico di Paulina, che l'hotel aveva immediatamente comprato. Dal Cile veniva anche il vino rosso e lo champagne dalla Francia. Si era sparsa la voce dell'arrivo dei cileni con il ghiaccio e i ristoranti e gli alberghi della città si erano riempiti di avventori desiderosi di concedersi il lusso di quelle delizie fresche prima che andassero esaurite. Stavano accendendo i sigari che accompagnavano il caffè e il brandy quando John Sommers sentì una manata sulla spalla che per poco non gli fece cadere il bicchiere. Si girò e si ritrovò di fronte Jacob Todd che non vedeva da più di tre anni, da quando l'aveva sbarcato in Inghilterra, povero e umiliato. Era l'ultima persona che si aspettava di vedere e ci mise qualche secondo a riconoscerlo, perché il falso missionario di quei tempi sembrava la caricatura di uno yankee. Aveva perso peso e capelli, due lunghe basette gli incorniciavano la faccia, indossava un abito a quadri di una misura troppo piccola, stivali di serpente, un incongruente cappello bianco della Virginia e dalle quattro tasche della giacca spuntavano matite, taccuini e giornali. Si abbracciarono come vecchi compagni.
Jacob Todd si trovava a San Francisco da cinque mesi e scriveva articoli sulla febbre dell'oro che venivano regolarmente pubblicati in Inghilterra e anche a Boston e New York. Era giunto grazie al generoso intervento di Feliciano Rodriguez de Santa Cruz, che non aveva gettato al vento il debito che lo legava all'inglese. Da buon cileno, non dimenticava mai un favore - nemmeno un'offesa - e quando era stato informato delle sue difficoltà in Inghilterra, gli aveva mandato soldi, un biglietto e due righe in cui spiegava che la California era la destinazione più lontana che si potesse raggiungere prima di intraprendere il ritorno dall'altra parte. Nel 1845 Jacob Todd era sceso dall'imbarcazione del capitano Sommers con rinnovata salute e pieno di energie, pronto a dimenticare l'umiliante vicenda di Valparaiso per dedicarsi anima e corpo a impiantare nel suo paese la comunità utopica che tanto aveva sognato. Portava con sé il grosso quaderno, ingiallito dall'uso e dall'aria di mare, fitto di annotazioni. Aveva studiato e pianificato la comunità fin nei minimi dettagli, era certo che molti giovani - i vecchi non interessavano - avrebbero abbandonato la loro faticosa esistenza per unirsi nella fratellanza ideale di uomini e donne liberi, all'interno di un sistema di assoluta uguaglianza, privo di autorità, poliziotti e religioni. I potenziali candidati per l'esperimento si erano rivelati molto più duri di comprendonio di quanto si era immaginato, ma dopo qualche mese ne aveva reclutati due o tre disposti a provarci. Mancava solo un mecenate che finanziasse il costoso progetto e bisognava trovare un terreno esteso, perché la comunità si proponeva di vivere lontana dalle aberrazioni del mondo e doveva poter soddisfare tutte le sue necessità.
Todd aveva giusto iniziato a coinvolgere un lord piuttosto bislacco che possedeva un'immensa proprietà in Irlanda, quando le voci dello scandalo di Valparaìso lo raggiunsero a Londra, incalzandolo come un cane ostinato senza dargli tregua. Anche lì le porte si chiusero per Todd; perse gli amici, i discepoli e il nobile lo ripudiarono, e il sogno dell'utopia andò a farsi benedire. Ancora una volta cercò di trovare sollievo nell'alcol e sprofondò nuovamente nel pantano dei brutti ricordi. Viveva come un topo in una pensione di infima categoria quando lo raggiunse il salvifico messaggio dell'amico. Non ci pensò su due volte. Cambiò il cognome e si imbarcò per gli Stati Uniti, pronto ad andare incontro a un nuovo e sfolgorante destino. Suo unico obiettivo era seppellire l'infamia e vivere nell'anonimato fino a quando fosse sorta l'opportunità di riavviare l'idilliaco progetto. La prima cosa da fare era trovarsi un impiego; la sua rendita si era ridotta e i gloriosi tempi dell'ozio erano ormai finiti. Arrivato a New York, si presentò in un paio di redazioni di giornale dove si offrì come corrispondente dalla California, poi intraprese il viaggio per l'Ovest passando per l'istmo di Panama, perché non ebbe il coraggio di farlo passando per lo Stretto di Magellano e di rimettere piede a Valparaìso dove l'onta lo attendeva intatta e la bella Miss Rose avrebbe di nuovo sentito il suo nome disonorato. In California l'amico Feliciano Rodriguez de Santa Cruz lo aiutò a sistemarsi e a trovare un impiego presso il primo giornale nato a San Francisco. Jacob Todd, ora convertitosi in Jacob Freemont, per la prima volta nella sua vita si mise a lavorare, scoprendo con stupore che gli piaceva. Percorreva la regione scrivendo a proposito di tutto quello che risvegliava la sua attenzione, massacri degli indiani compresi: raccontava degli immigranti che provenivano da ogni angolo del pianeta, della sfrenata speculazione dei mercanti, della sbrigativa giustizia dei minatori e dell'immoralità diffusa. Uno dei suoi reportage per poco non gli costò la vita. Descrisse con eufemismi, ma con perfetta chiarezza, il modo in cui lavoravano alcune bische, con dadi segnati, carte truccate, liquori adulterati; riferì di droghe, di prostituzione e della pratica di intossicare con l'alcol le donne fino a lasciarle prive di sensi, per poi vendere a un dollaro il diritto di violentarle a tutti gli uomini che desiderassero partecipare al gioco. "Il tutto sotto la protezione delle stesse autorità che dovrebbero combattere tali vizi", scrisse a mo' di conclusione. Gli saltarono addosso i gangster, il capo della polizia e i politici; dovette dissolversi nel nulla per un paio di mesi finché gli animi non si furono raffreddati. Malgrado il passo falso, i suoi articoli uscivano regolarmente e si stava affermando come voce rispettata. Come disse testualmente all'amico John Sommers, cercando l'anonimato stata trovando la celebrità.
Alla fine della cena, Jacob Freemont invitò gli amici allo spettacolo del momento: una cinese che si poteva guardare, ma non toccare. Si chiamava Ah Toy e si era imbarcata in un clipper con il marito, un commerciante attempato che aveva avuto il buon gusto di morire in alto mare lasciandola libera. Lei non perse tempo in lamentazioni vedovili e per rendere più vivace il resto della traversata divenne l'amante del capitano, che si rivelò uomo generoso. Una volta scesa a San Francisco, ricca e pimpante, notò gli sguardi lascivi che la seguivano ed ebbe la brillante idea di farseli pagare. Affittò due camere, praticò dei fori nella parete divisoria e per un'oncia d'oro vendeva il privilegio di guardarla. Gli amici seguirono Jacob Freemont di buon grado e, scucendo qualche dollaro, si comprarono il diritto di saltare la fila e di entrare tra i primi. Vennero condotti in una stanza piccola, satura di fumo di tabacco, dove si pigiavano una dozzina di uomini con il naso appiccicato al muro. Si affacciarono agli scomodi buchi, sentendosi come ridicoli scolaretti, e nell'altra stanza videro una bella ragazza con indosso un kimono aperto su ambo i lati dalla vita ai piedi. Sotto era nuda. Gli spettatori ruggivano a ogni singolo e languido movimento che rivelava una parte del suo corpo delicato. John Sommers e i fratelli Rodriguez de Santa Cruz si piegarono in due dal ridere, senza riuscire a credere che il bisogno di donne fosse così forte. Si separarono, e il capitano e il giornalista andarono a farsi il bicchiere della staffa. Dopo aver ascoltato il resoconto dei viaggi e delle avventure di Jacob, il capitano decise di confidarsi.
"Si ricorda di Eliza, la bambina che viveva con i miei fratelli a Valparaìso?"
"Perfettamente."
"È scappata di casa quasi un anno fa e ho buoni motivi per credere che sia qui in California. L'ho cercata, ma nessuno ha sentito parlare di lei o di qualcuno che corrispondesse alla sua descrizione."
"Le uniche donne sole che sono arrivate qui sono prostitute."
"Non so come abbia fatto ad arrivare qui, nel caso in cui sia arrivata. L'unica cosa certa è che partì alla ricerca del suo innamorato, un giovane cileno dal nome Joaquin Andieta..."
"Joaquin Andieta! Lo conosco, era mio amico in Cile."
"É ricercato dalla giustizia. L'accusa è di furto."
"Non ci posso credere. Andieta era un giovane molto dignitoso. Aveva un orgoglio e un senso dell'onore tale che era persino difficile avvicinarlo. E mi dice che lui ed Eliza sono innamorati?'
"So solo che si era imbarcato per la California nel dicembre 1848 e che due mesi dopo la ragazza è sparita. Mia sorella è convinta che sia venuta qui a cercare Andieta, anche se non so immaginare come ci sia riuscita senza lasciare tracce. Visto che lei si muove per gli accampamenti e i paesi del Nord, magari avrà modo di sapere qualcosa..."
"Farò il possibile, capitano."
"Io e i miei fratelli le saremo eternamente grati, Jacob."
Eliza Sommers rimase con la comitiva di Joe Spaccaossa; suonava il piano e divideva a metà le mance con la tenutaria. Comprò un canzoniere di musica americana e uno di musica latina per vivacizzare le serate e durante le ore d'ozio, che erano parecchie, insegnava a leggere al bambino indiano, collaborava alle varie faccende quotidiane e cucinava. Come dicevano quelli della compagnia, non si era mai mangiato meglio. Con gli stessi ingredienti di sempre, carne secca, fagioli e pancetta, cucinava piatti saporiti sull'onda dell'entusiasmo del momento; comprava condimenti messicani e li aggiungeva alle ricette cilene di Mama Fresia ottenendo deliziosi risultati; preparava torte semplicemente a base di strutto, farina e frutta in conserva, ma quando riusciva a procurarsi uova e latte, la sua ispirazione raggiungeva vette gastronomiche sovrumane. Babalù il Cattivo non condivideva l'idea che fossero gli uomini a cucinare, ma siccome era il primo a divorare i banchetti del giovane pianista, optò per tenersi i commenti sarcastici per sé. Abituato a montare la guardia durante la notte, il gigante passava gran parte della giornata a dormire di gusto, ma appena il profumino delle pignatte raggiungeva le sue narici da drago si svegliava di soprassalto e si insediava di fianco alla cucina a sorvegliare. Era afflitto da un appetito insaziabile e non c'era provvista di cibo sufficiente a riempire la sua pancia. Prima dell'arrivo del Cilenito, come chiamavano il presunto Elias Andieta, la sua dieta di base era costituita dagli animali che riusciva a cacciare, che poi tagliava per il lungo, condiva con un pugno di sale grosso e metteva sulla brace fino a carbonizzarli. In questo modo poteva trangugiarsi un cervo in due giorni. A contatto con la cucina del pianista gli si raffinò il palato; andava quotidianamente a caccia, sceglieva le prede più delicate e gliele consegnava pulite e spellate.
Durante gli spostamenti Eliza capitanava la comitiva a cavallo del suo robusto ronzino, che malgrado il triste aspetto si rivelò nobile come un sauro purosangue, con l'inutile carabina di traverso sulla sella e il bambino del tamburo in groppa. Si sentiva così comoda nei vestiti da uomo che si domandava se un giorno sarebbe stata di nuovo in grado di vestirsi da donna. Di una cosa era certa: non avrebbe indossato un bustino nemmeno il giorno del suo matrimonio con Joaquin Andieta. Se arrivavano a un fiume, le donne ne approfittavano per raccogliere l'acqua nei barili, per lavare gli indumenti e farsi il bagno; quelli erano i momenti più difficili per lei, doveva inventarsi delle scuse sempre più arzigogolate per lavarsi senza testimoni.
Joe Spaccaossa era una robusta olandese della Pennsylvania, che aveva trovato il suo destino nello sconfinato Ovest. Aveva un talento da prestigiatore con le carte e i dadi, barare era la sua passione. Si era guadagnata da vivere con le scommesse fino a quando non le era venuto in mente di mettere in piedi l'affare delle ragazze e di percorrere la Veta Madre "in cerca d'oro", come lei definiva quel modo di svolgere l'attività estrattiva. Era certa che il giovane pianista fosse omosessuale e proprio per questo gli si affezionò in modo particolare come era successo per il piccolo indiano. Non permetteva che le ragazze si burlassero di lui o che Babalù gli si rivolgesse con dei soprannomi: non era colpa di quel povero ragazzo l'essere nato senza un pelo di barba e con quel fisico da grissino, come non era sua quella di essere nata uomo con corpo da donna. Erano scherzetti estemporanei che Dio faceva tanto per dare noia. Aveva comprato il bambino per trenta dollari da alcune guardie yankee che avevano sterminato il resto della tribù. A quel tempo aveva quattro o cinque anni, non era che uno scheletrino con la pancia gonfia di vermi, ma dopo pochi mesi di alimentazione forzata e di guerra ai capricci, perché non spaccasse tutto quello che gli passava tra le mani né prendesse a testate le ruote dei carri, la creatura era cresciuta di un palmo ed era emersa la sua vera natura da guerriero: era stoico, ermetico e paziente. L'aveva chiamato Tom Senza Tribù perché non dimenticasse il dovere della vendetta. "Il nome è inseparabile dall'essere", dicevano gli indiani, e anche Joe ci credeva, e non a caso si era inventata il cognome che portava.
Le colombe infangate della comitiva erano: due sorelle del Missouri che avevano compiuto quel lungo viaggio via terra e strada facendo avevano perso la famiglia; Esther, una diciottenne fuggita dal padre, un fanatico religioso che la frustava, e una bella messicana, figlia di padre gringo e madre india, che si spacciava per bianca e aveva imparato quattro frasi in francese per confondere i distratti perché, secondo una credenza popolare, le francesi erano più esperte. Quella società di avventurieri e ruffiani aveva anche le sue regole di aristocrazia razziale: i bianchi accettavano le meticce color cannella, ma rifiutavano qualsiasi mescolanza con i neri. Le quattro donne erano grate al loro destino per aver fatto incontrare loro Joe Spaccaossa. Esther era l'unica senza esperienza precedente, ma le altre avevano lavorato a San Francisco e conoscevano la vita dei bassifondi. Non avevano avuto in sorte saloni d'alto bordo, avevano sperimentato botte, malattie, droghe e protettori malvagi, avevano contratto un'infinità di infezioni, erano state sottoposte a cure brutali e a talmente tanti aborti che erano diventate sterili, condizione che, lungi dall'intristirle, consideravano una benedizione. Da quella vita di abiezione Joe le aveva riscattate portandosele lontano. Poi le aveva sostenute nel lungo martirio dell'astinenza per guarirle dalla dipendenza dall'oppio e dall'alcol. Le donne l'avevano ripagata con lealtà filiale perché lei per di più le trattava con giustizia e non le sfruttava. La temibile presenza di Babalù scoraggiava i clienti violenti e gli insopportabili ubriaconi, mangiavano bene e i carri itineranti erano un buon incentivo per lo spirito e la salute. In quelle colline e in quei boschi sconfinati si sentivano libere. La loro vita non era affatto facile né romantica, ma avevano risparmiato un po' di soldi e se ne sarebbero potute andare se l'avessero voluto, ma non lo facevano perché quel piccolo gruppo era quanto di più simile a una famiglia esse avessero.
Anche le ragazze di Joe Spaccaossa erano convinte che quel giovane Elias Andieta, rachitico e dalla voce flautata, fosse dell'altra sponda. Ciò lasciava loro la possibilità di svestirsi tranquillamente, lavarsi e parlare di qualsiasi argomento in sua presenza, come fosse una di loro. L'accettarono con tale naturalezza che spesso Eliza dimenticava il suo ruolo maschile, ma provvedeva poi Babalù a ricordarglielo. Si era ripromesso di trasformare quel pusillanime in un vero uomo e l'osservava da vicino, pronto a correggerlo quando si sedeva con le gambe giunte o si scuoteva la corta capigliatura con un gesto tutt'altro che virile. Le insegnò a tenere pulite e oliate le armi, ma perse la pazienza cercando di migliorarne la mira: ogni volta che premeva il grilletto il suo allievo chiudeva gli occhi. Non si lasciava impressionare dalla Bibbia di Elias Andieta, al contrario, sospettava che la usasse per giustificare i suoi modi ed era dell'avviso che, se il ragazzo non pensava di convertirsi in un maledetto predicatore, perché diavolo leggeva scempiaggini, tanto valeva leggere dei libri sconci, magari poi gli venivano delle idee da maschio. Babalù riusciva a stento a scrivere il suo nome e leggeva a fatica, ma non l'avrebbe ammesso neanche morto. Diceva di avere problemi di vista e di non distinguere bene le lettere, ma poi riusciva a sparare a cento metri di distanza in mezzo agli occhi a una lepre terrorizzata. Chiedeva spesso al Cilenito di leggere ad alta voce i vecchi giornali e i libri erotici della Spaccaossa, non tanto per i passaggi triviali, quanto per la trama, che riusciva sempre a commuoverlo. Si trattava invariabilmente di amori incendiari tra un membro della nobiltà europea e una plebea, o del contrario, di una dama aristocratica che perdeva la testa per un contadino, comunque onesto e orgoglioso. In questi racconti le donne erano sempre belle e gli amanti instancabili, intensi. Lo sfondo era costituito da una profusione di baccanali, ma a differenza degli altri romanzetti pornografici da dieci centesimi che si vendevano in quei paraggi, questi avevano un intreccio. Eliza leggeva ad alta voce senza mostrare la minima sorpresa, come se in vita sua non avesse fatto altro che praticare i peggiori vizi, mentre intorno a lei Babalù e tre delle colombe ascoltavano a bocca aperta. Esther non partecipava a queste riunioni perché descrivere quegli atti le sembrava un peccato più grande che metterli in pratica. Eliza aveva le orecchie in fiamme, ma non poteva fare a meno di riconoscere l'inaspettata eleganza con cui quelle porcherie erano state redatte: alcune frasi le ricordavano lo stile impeccabile di Miss Rose. Joe Spaccaossa, cui la passione della carne non poteva interessare di meno e che pertanto ovviamente si annoiava con quelle letture, si preoccupava personalmente di impedire che anche una di quelle parole potesse ferire le innocenti orecchie di Tom Senza Tribù. "Lo sto educando per fare di lui un capo indiano, non per fare il magnaccia," diceva, e determinata com'era a farne un uomo, proibiva al ragazzino di chiamarla nonna.
"Non sono la nonna di nessuno, per tutti i diavoli! Sono la Spaccaossa, mi hai capito o no, maledetto moccioso?"
"Sì, nonna."
Babalù il Cattivo, un ex carcerato di Chicago, aveva attraversato a piedi il continente molto prima che scoppiasse la febbre dell'oro. Parlava le lingue degli indiani e per sopravvivere aveva fatto di tutto, dall'attrazione in un circo ambulante, dove riusciva a sollevarsi un cavallo sopra la testa e a trascinare con i denti un vagone carico di sabbia, allo scaricatore nel porto di San Francisco. Lì era stato scoperto dalla Spaccaossa e assunto nella comitiva. Poteva svolgere il lavoro di diversi uomini e per la sorveglianza bastava lui. Insieme potevano mettere in fuga quanti avversari volessero, come avevano dimostrato in più di un'occasione.
"Devi essere forte o ti distruggeranno, Cilenito," consigliava a Eliza. "Non credere che io sia sempre stato forte come sono adesso. Prima ero come te, deboluccio e un po' tardone; ma poi mi sono messo a sollevare pesi e guarda ora che muscoli! Adesso nessuno osa misurarsi con me."
"Babalù, tu sei alto più di due metri e pesi quanto un vitello. Non sarò mai come te!"
"Le dimensioni non c'entrano niente, caro mio. Sono le palle quelle che contano. Io sono sempre stato grande, eppure ridevano di me."
"Chi ti prendeva in giro?"
"Tutti, persino mia madre, che riposi in pace. Ti voglio dire una cosa che non sa nessuno..."
"Dimmi.."
"Ti ricordi di Babalù il Buono? Ero io, prima. Ma da vent'anni sono Babalù il Cattivo e le cose vanno molto meglio."